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Con la pronuncia n. 148 del 25 luglio 2024 la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali gli articoli 230-bis, terzo comma, e 230-ter, del codice civile, in ambito di impresa familiare, per includervi l’operatività anche verso il convivente di fatto.

Le Sezioni Unite civili della Corte di cassazione avevano sollevato questioni di legittimità costituzionale della disciplina dell’impresa familiare nella parte ove il convivente more uxorio non era incluso nel novero dei familiari.

Per l’art. 1, comma 36, della legge cd. Cirinnà, si intendono per «conviventi di fatto o conviventi more uxorio» “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale”.

La Consulta ha affrontato la questione rilevando innanzitutto che negli ultimi anni si è assistito ad una convergente evoluzione sia della normativa nazionale, sia della giurisprudenza costituzionale, comune ed europea, che ha riconosciuto piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto.

In particolare, la Consulta rileva che “La convivenza more uxorio costituisce un rapporto ormai entrato nell’uso ed è comunemente accettato, accanto a quello fondato sul vincolo coniugale”, pur con la permanenza di alcune differenze, che, “in ragione dei caratteri di stabilità, certezza, reciprocità e corrispettività dei diritti e doveri che nascono soltanto da tale vincolo [matrimoniale, n.d.r.], giustificano un differente trattamento normativo tra i due casi che trova il suo fondamento costituzionale nella circostanza che il rapporto coniugale riceve tutela diretta nell’art. 29 Cost. (ordinanza n. 121 del 2004)”.

La Consulta rileva altresì che “L’accertamento dell’esistenza della convivenza – intesa quale legame affettivo stabile e duraturo in virtù del quale siano spontaneamente e volontariamente assunti reciproci impegni di assistenza morale e materiale – rileva in tante altre situazioni specifiche: sul risarcimento del danno da perdita della vita del convivente (Corte di cassazione, sezione terza civile, ordinanze 13 aprile 2018, n. 9178 e 16 settembre 2008, n. 23725); sulla sofferenza provata dal convivente in conseguenza dell’uccisione del figlio unilaterale del partner (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 21 aprile 2016, n. 8037); ai fini dell’indebito arricchimento (Corte di cassazione, sezione terza civile, ordinanza 7 giugno 2018, n. 14732); ai fini della legittimazione ad esperire l’azione di spoglio (Corte di cassazione, seconda sezione civile, sentenza 2 gennaio 2014, n. 7); sulla detenzione qualificata dell’immobile adibito a casa familiare assegnato all’ex convivente genitore collocatario di figli minori (Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenza 11 settembre 2015, n. 17971).”

La Corte ricorda altresì che secondo la ormai consolidata giurisprudenza della Corte EDU in sede di interpretazione dell’art. 8 della CEDU, la vita dei conviventi di fatto rientra nella concezione di vita “familiare”.

In definitiva, la Corte afferma che “permangono, quindi, differenze di disciplina, ma, quando si tratta di diritti fondamentali, esse sono recessive e la tutela non può che essere la stessa sia che si tratti, ad esempio, del diritto all’abitazione (sentenza n. 404 del 1988), o della protezione di soggetti disabili (sentenza n. 213 del 2016), o dell’affettività di persone detenute (sentenza n. 10 del 2024)”.

Ancora, la Corte rileva che “parimenti fondamentale è il diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.), che, quando reso nel contesto di un’impresa familiare, richiede uguale protezione”.

Alla luce dei rilievi di cui sopra, la Corte ha ritenuto irragionevole la mancata inclusione del convivente di fatto nell’impresa familiare disciplinata dall’art. 230-bis cod. civ. (ricordiamo che il caso oggetto di pronuncia è precedente all’introduzione dell’art. 230-ter c.c. da parte della l. 76/2016).

All’estensione della tutela apprestata dall’art. 230-bis del codice civile al convivente di fatto operata dalla Corte Costituzionale è conseguita altresì l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter del codice civile (introdotto dalla legge n. 76/2016), il quale, nell’attribuire al medesimo una tutela ridotta (seppur prima non prevista), non inclusiva del riconoscimento del lavoro nella famiglia, del diritto al mantenimento, e dei diritti partecipativi nella gestione dell’impresa familiare, comporterebbe un ingiustificato e discriminatorio abbassamento di protezione rispetto alla tutela riconosciuta dalla Corte in questa sede.

Di seguito il link per la lettura del testo integrale della sentenza della Corte Costituzionale: https://cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?param_ecli=ECLI:IT:COST:2024:148

Pur esulando dal tema del presente articolo, è bene ricordare che al fine di esercitare i diritti che la legge riconosce alle coppie conviventi è fondamentale fornire la dimostrazione dell’esistenza di tale convivenza, della stabilità della relazione affettiva e la coabitazione tra i conviventi.

A tal fine è sufficiente presentare all’anagrafe civile del Comune di residenza una autocertificazione da redigere in carta libera in cui i due conviventi dichiarano di convivere nello stesso indirizzo anagrafico, secondo quanto previsto dall’art. 13 del regolamento di cui al DPR 30 maggio 1989, n. 223. A seguito di tale autocertificazione, il Comune, una volta disposti gli opportuni accertamenti per verificare la stabile convivenza, può rilasciare lo stato di famiglia e il certificato di residenza.

Per approfondire questi aspetti, rinvio ad un mio precedente articolo, che trovate su questo blog: https://lexet.it/il-gap-di-disciplina-tra-matrimonio-unione-civile-e-convivenza-registrata/

Photo credit: Dylan Gillis su Unsplash.