Al quesito se i condomini possano accordarsi per costituire un diritto reale di uso esclusivo su un bene condominiale, come il cortile, risponde negativamente la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza 17 dicembre 2020, n. 28972.
Innanzitutto la Corte ricorda come, in ambito condominiale, il diritto di uso esclusivo sia nato dalla prassi notarile. Si tratta di una clausola che concede ad un’unità immobiliare l’uso esclusivo di un’area, che in realtà è comune, come il cortile. Tale diritto non incide sull’appartenenza dell’area alla collettività, ma sul riparto delle facoltà di godimento. Infatti, l’uso esclusivo preclude l’uso paritario previsto dall’art. 1102 c.c. e presunto dall’art. 1117 c.c., il quale indica le parti comuni dell’edificio, facendo salva l’ipotesi in cui il titolo disponga diversamente.
Tale prassi è nata allo scopo di risolvere problemi catastali, quali, ad esempio, il mancato frazionamento dell’area comune.
La Corte ricorda che la legge prevede espressamente un caso di uso esclusivo solo con riferimento al lastrico solare (art. 1126 c.c.), precisando, tuttavia, che l’uso del lastrico solare e il diritto di uso esclusivo di un bene comune rappresentano due fattispecie distinte.
La Suprema Corte ritiene che la clausola contrattuale che prevede il diritto di uso esclusivo di una parte comune – come il cortile – ferma restando la titolarità della proprietà del bene in capo al Condominio, non può trovare fondamento nell’art. 1126 c.c. Tale norma si occupa di una porzione peculiare dell’edificio, i lastrici solari: per la loro conformazione ed ubicazione, il calpestio è esercitabile solo da uno o alcuni condomini. In tale circostanza, quindi, l’uso esclusivo del lastrico non priva gli altri condomini del godimento del bene comune, perché essi non vi potrebbero comunque accedere.
Nel caso esaminato, siccome con l’uso esclusivo si realizzerebbe una totale compressione del godimento degli altri condomini sulla cosa comune e si creerebbe un diritto atipico di uso esclusivo, la Corte ritiene sia da escludersi la possibilità di attribuire l’uso esclusivo ad un condomino dei beni comuni.
Infatti, secondo la Corte, il diritto di uso esclusivo non può consistere:
- in una servitù,
- in un’obbligazione propter rem o di un onere reale,
- in un diritto reale atipico.
La servitù consiste nel peso imposto su un fondo a vantaggio di un altro e quindi determina una restrizione delle facoltà di godimento del fondo servente, ma tale restrizione non può risolversi nella totale elisione delle facoltà di godimento del fondo servente. Quindi, citando le parole degli ermellini, «se ad un condomino spettasse a titolo di servitù l'”uso esclusivo” di una porzione di parte comune, agli altri condomini non rimarrebbe nulla, se non un vuoto simulacro».
Il diritto d’uso esclusivo non può rientrare neppure nella categoria delle obbligazioni propter rem o degli oneri reali, perché questi sono caratterizzati dal requisito della tipicità, quindi, possono sorgere per contratto solo nei casi e con il contenuto previsti dalla legge.
È da escludersi anche che si tratti di un diritto reale atipico, perché i privati non possono creare nuove figure di diritti reali, per cui è previsto un numerus clausus.
Esclusa la validità della costituzione di un diritto reale di uso esclusivo di una parte comune dell’edificio, in ambito condominiale, la Corte affronta il problema della sorte del titolo negoziale che, invece, tale costituzione abbia previsto.
La Corte afferma che è necessario analizzare il titolo giuridico (ossia l’atto notarile) per indagare se la volontà delle parti, al momento di costituzione del condominio, fosse:
- limitata all’attribuzione dell’uso esclusivo, riservando la proprietà all’alienante,
- oppure, diretta al trasferimento della proprietà.
Secondo la Corte non è neppure da escludersi che il diritto di uso esclusivo, sussistendone i presupposti normativamente previsti, possa essere da ricondurre nel diritto reale d’uso di cui all’art. 1021 c.c., se del caso attraverso l’applicazione dell’art. 1419 c.c., comma 1, oppure che operi la conversione del contratto, ai sensi dell’art. 1424 c.c., in contratto avente ad oggetto la concessione di un uso esclusivo e perpetuo (inter partes) di natura obbligatoria.
I suddetti principi della Corte dovranno tuttavia essere contemperati alla luce della disciplina dell’usucapione.
Il condomino che deduce di avere usucapito la cosa comune, secondo Cass. 23 ottobre 2018, n. 26751 e Cass. 16 dicembre 2016, n. 26061, dovrebbe provare di averla sottratta all’uso comune per il periodo utile all’usucapione, e cioè deve dimostrare una condotta diretta a rivelare in modo inequivoco che si è verificato un mutamento di fatto nel titolo del possesso, costituito da atti univocamente rivolti contro i compossessori, e tale da rendere riconoscibile a costoro l’intenzione di non possedere più come semplice compossessore, non bastando al riguardo la prova del mero non uso da parte degli altri condomini, stante l’imprescrittibilità del diritto in comproprietà.
Pare potersi affermare che nel caso in cui un regolamento condominiale contenga la previsione della concessione di uso esclusivo di un bene condominiale da parte di un singolo condomino, e tale clausola venga qualificata come accordo di natura obbligatoria, il titolo per l’utilizzo della cosa da parte del condomino sia la detenzione (e non il possesso), come tale non idonea ai fini dell’usucapione, a meno che non intervenga un mutamento della detenzione in possesso.
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